Nasce il portale italiano della musica post rock! Un punto di riferimento per tutti gli amanti del genere Post Rock. Un punto di condivisione, un punto dove ricevere tutti gli aggiornamenti in tempo reale sulle band più amate del genere. Un luogo dove dare spazio agli artisti emergenti e alla musica nostrana.
Lamb – Terminal Serious. Abbiamo il piacere di ascoltare in anteprima il singolo estratto dall’album Love was lies, in uscita il 13 Marzo.
Luigi Bonaiuto, in arte Terminal Serious, è un musicista poliedrico fiorentino con una grandissima passione per il post punk e la dark wave, e ci delizia con questo interessante singolo Lamb. Il singolo apre le file dell’album ufficiale, Love was lies, che debutterà ufficialmente sul web e nei digital stores il 13 Marzo.
Lamb è un brano estremamente evocativo, profondo e rituale.
Una chitarra ci accoglie con note arpeggiate brillanti, qualche secondo di attesa, e poi il sipario si apre, rivelandoci quel mondo sonoro al di là dello specchio.
E come un mondo parallelo, qui vediamo tutto muoversi diversamente, creature nella notte che camminano lentamente e si dileguano alla nostra vista, mezzi di trasporto futuristici sorvolano le nostre teste oscurando il cielo stellato, e i palazzi di cristallo si innalzano tutto intorno.
La voce, scura e sensuale, ci segue per tutto il brano, guidandoci, raccontandoci quello che vediamo, e noi lo seguiamo alla scoperta di questo mondo a noi sconosciuto.
Ogni canzone, ogni artista, ha qualcosa da raccontare. C’è chi ti colpisce per l’utilizzo di effetti straordinari e particolari, chi ti affascina per l’utilizzo di ritmiche alternative, chi si lancia in assoli complicati e difficilissimi.
Lamb ci colpisce per la sua qualità evocativa, per la sua capacità di tessere una trama sonora che va aldilà del semplice brano, e diventa quasi colonna sonora. Non ci sono saliscendi, non ci sono esplosioni, ma un suono caldo e languido che si propaga nel nostro cervello catturando tutta la nostra attenzione e regalandoci 3 minuti di piacevole ascolto.
Un brano che preannuncia un disco che sarà sicuramente interessante, e noi non vediamo l’ora di recensire l’intero lavoro di Luigi. Rimanete sintonizzati su Postrock.it, per sapere tutto su questo disco!
Sis Felix – Figures. Un album Dark Wave, Post Punk con alcuni elementi psichedelici di assoluto interesse. Un gruppo che ne ha passate tante, e si sente!
Dal lontano 1987 i Sis Felix arrivano nel nostro Stereo con un EP interessante, innovativo, ma al tempo stesso maturo e denso di esperienze.
Il progetto che abbiamo davanti a noi oggi non è il classico progetto emergente italiano, e non è nemmeno post rock, ma non per questo è meno interessante.. anzi.
Parliamo di una band che fonda il suo groove e il suo spirito ribelle nel periodo più rivoluzionario della musica Rock psichedelica, cioè negli anni ’80. In quel periodo abbiamo assistito ad alcuni dei più grandi album della storia. Questo gruppo si fa subito notare, al punto da essere recensiti da Rockerilla in occasioni delle selezioni ad Arezzo Wave.
Passano gli anni, la band si scioglie, ma la voglia di suonare e di lasciare il segno rimane. Ed è così che arriviamo al 2012, anno in cui il progetto riprende vita, capitanato da Roberto (Voce) e Alessandro (Basso). Passa qualche anno, la band trova altri elementi, nascono i brani, si entra in sala registrazioni.. ed ecco che nasce Figures.
Un EP che sicuramente lascia subito trasparire una maturità musicale non indifferente. Questo EP è dark, elettronico, psichedelico. 4 brani che lasciano subito un’impronta decisa e chiara di quello che il progetto vuole trasmettere.
Una voce che richiama uno stile d’altri tempi, un pò alla Depeche Mode, sensuale e calda, si unisce egregiamente a una trama sonora ricca di pattern scuri e intriganti. Il Basso rappresenta uno dei punti chiave dell’intero concetto dell’album, come un motore che spinge avanti il gigantesco macchinario.
1-FIGURES. Immaginate di poter congelare un momento, una band, e di poterla scongelare dopo anni per riascoltarla in tutto il suo splendore. È questa la sensazione che avvertiamo ascoltando il primo brano. Una scia che sembra arrivare direttamente dagli anni ’80 e ci fa sognare ad occhi aperti. Dark Wave pura e semplice, una drum incalzante e psichedelica, arpeggiatori, una voce con impronta un pò british, un pò alla the Cure. Questo brano ci fa dimenticare per un attimo di essere nel 2021, e ci fa sognare.
2-LONELY. Fin dal suo inizio questo brano si presenta subito chiaramente come un degno successore del primo brano. Un Basso ammaliante ci presenta un riff semplice ma che rimane in testa. Poi il brano prende il volo, con incredibili tappeti synth e riff di chitarra, con effetti morbidi e luccicanti.
I Sis Felix sono della vecchia scuola, sanno come fare musica elettronica, e arrivano con questo EP per dare qualche lezione di stile a tanti ragazzini che si approcciano al genere per la prima volta.
3-MY SUFFERING SOUL. Un brano forse più introverso dei primi due, ma sempre sognante e scorrevole, attraversato da questa onda sonora che sembra non fermarsi mai. La voce qui è quasi sofferente, sembra volerci raccontare molto di più di poche semplici parole contenute in un testo. Un’anima sofferente che si esprime in tutta la sua energia tra le onde soffuse di questo mare psichedelico.
4-SENSATIONS. L’ultimo brano lancia nell’etere qualcosa di nuovo, come se l’ultima canzone fosse un preambolo di qualcosa che deve ancora arrivare. Che sia la premessa per un nuovo album? Avvertiamo qualche sonorità Post-rock, ambientazioni più moderne rispetto ai brani precedenti. Siamo sicuri che la scelta di sistemare questo brano in fondo sia voluta, per lasciare la curiosità e il desiderio di sentire di più.
Un EP che lascia sicuramente il desiderio di ascoltare altro. Cosa verrà? Quale sarà la prossima mossa di questo interessante progetto musicale italiano? I Sis Felix ci promettono di tornare presto sulle nostre pagine, per una nuova recensione. E noi li aspettiamo con grande trepidazione. A presto ragazzi!
“Esprimersi con la Musica” di Guido Tonizzo e Diego Silvestrin è stata una vera rivelazione. Il libro spiega in maniera semplice e diretta alcune tecniche mentali e d’immagine utili per l’artista ed il musicista di oggi, ma non solo, a nostro parere.
Il primo capitolo del libro si concentra prettamente sull’esprimere se stessi, sull’analizzare se stessi in maniera accurata. E’ vero, spesso ci sentiamo frustrati e limitati da frasi come “sei ciò che fai”, ma non è realmente così. Dentro ognuno di noi c’è molto di più di ciò che appare o che riusciamo a far apparire e questo è stato un punto davvero importante ed illuminante del testo.
Prendere consapevolezza di noi stessi, questo è il punto cruciale per riuscire in qualsiasi attività, anche al di fuori dell’ambiente musicale.
Il libro prosegue con dettagliati esercizi di respirazione che soprattutto cantanti e musicisti dovrebbero conoscere, sia per l’utilizzo corretto della respirazione e del diaframma, sia per delle semplici tecniche di rilassamento. Essere ricettivi, open-minded ma soprattutto ben disposti a praticare.
Quando la testa è colma di caos, quando ritroviamo nella confusione una giornata poco produttiva, bisogna riuscire a svuotare la mente e, sempre con consapevolezza, rendere fruttuosa una situazione negativa. E trasformarla, ebbene sì, in un qualcosa di positivo, di produttivo, di utile per il nostro futuro.
Trarre insegnamento da tutto ciò che ci accade, che ci è accaduto, persino da ricordi negativi, tramite associazione di emozioni, sentimenti.
Tutto questo viene specificato ancor più nel dettaglio nel secondo capitolo, dove prendiamo coscienza che sì, possiamo essere di più. I pensieri nella nostra mente ci condizionano, il respiro diventa affannoso e spesso respiriamo perché lo facciamo d’inerzia… ma regolare il nostro respiro significa regolare la nostra mente.
E tutto questo ci aiuta nella nostra performance artistica ma non solo, anche nella vita di ogni giorno, nelle attività più piccole e quotidiane. Semplicemente ciò che conta è imparare a stare bene con noi stessi, con il nostro corpo e con la nostra mente. Il libro contiene altri suggerimenti che vi consigliamo di leggere con attenzione, comprese le testimonianze di persone che hanno seguito i suddetti suggerimenti.
Nel terzo capitolo si parla di “ancoraggio”, inteso come associazione di ricordi o sensazioni; nel quarto invece andiamo ad analizzare il concetto di immagine.
Questo capitolo è molto importante per gli artisti di oggi che devono, volente o nolente, avere a che fare con il mondo dei social.
Oggi badare all’immagine è fondamentale e il libro dona interessanti dritte su come farlo nel modo migliore, mantenendo comunque la propria identità ed anzi, imparando a valorizzarla al meglio.
L’immagine parla un proprio linguaggio, un linguaggio che sappiamo poter essere cognitivo o patemico, quindi più distaccato o maggiormente emozionale, ma comunque ha un linguaggio, una propria grammatica, una propria autonomia. Imparare ad utilizzare queste nozioni, a trasformare i difetti in pregi, a fare perno sul proprio carisma, sono tutti dettagli che possono fare la differenza… soprattutto per la vita di un artista.
Il quinto capitolo continua sulla scia del quarto, con informazioni utili sul come farsi conoscere sul web, sul come affrontare un lavoro o una collaborazione al massimo delle proprie potenzialità. Il libro termina con una serie di interviste molto interessanti a personalità importanti nel mondo della musica, come Omar Pedrini, Massimo Varini o Giuseppe Marano.
In conclusione abbiamo trovato il libro estremamente comprensibile, semplice, parla di concetti importanti ed anche di una certa difficoltà, affrontando tematiche come la psicologia, l’etica della comunicazione, la pubblicità.
Passa dalle pratiche meditative di respirazione all’importanza dell’immagine sul web in pochissimo tempo eppure mantenendo una linea guida estremamente chiara.
Una lettura profonda ed allo stesso tempo leggera nel suo scorrere, decisamente consigliato non solo per gli artisti.
Oktopus Provance escono potenti dalle casse dello Stereo con un album Rock intenso e trasparente, con un inconfondibile sapore Post Rock.
Oggi allarghiamo un pò le nostre vedute, per parlare di un progetto che non si definisce Post Rock, ma dai sapori e dai contorni sperimentali.
È sempre un piacere ascoltare band come gli Oktopus Provance. Quando la musica è fatta bene, è fatta bene. Questo quintetto ci convince subito, fin dal primo pezzo. Ci presentanto un range sonoro molto ampio, che spazia dal Rock, al Post Rock, lanciandosi in Riff potenti e dalle chiare influenze Stoner. Questi ragazzi non si precludono nessuna strada, anzi decidono di sentirsi liberi di esprimere tutta la loro arte in questo “Underneath the Sun”.
La voce chiara e cristallina del cantante tiene alti i riflettori fin dal primo brano, mentre riff di chitarre piacevolmente Ambient si accompagnano a momenti potenti e adrenalinici, seguiti fedelmente dalle percussioni, incisive al punto giusto, e da un basso che sa riempire le frequenze giuste, senza strafare, ma tenendo le giuste vibrazioni.
10 brani, 51 minuti di musica rigorosamente nostrana e originale. L’Italia da sempre ha fatto scuola nella musica sperimentale, e questi ragazzi tengono alta la nostra reputazione, con atmosfere psichedeliche e dense di immagini.
Tra i brani che mi hanno colpito di più c’è Eclipse, un momento strumentale degno di nota, con arpeggi di chitarra che si disperdono in una nebbia di pattern synth alla God Is An Astronaut. Un assoluto momento di piacere Post Rock.
Active Generator. Si apre con un super Riff dal sapore Stoner, per lanciarsi in un momento cantato quasi sognante. Questo brano è l’emblema della sperimentazione. Qui troviamo non soltanto cambi di intensità, ma anche cambi di tempo (che il batterista sa giocare con intelligenza, senza cadere nello scontato) e intenzione, creando un viaggio musicale che rende piacevole l’ascolto fino alla fine (non male per un brano di ben 7:17)
Oktopus Provance sanno quando colpire duro, ma sanno anche quando lasciarsi andare ai momenti più delicati e romantici.
Space Cowboy. Come suggerisce sapientemente il titolo, questo brano mischia un sound decisamente Country Folk con sonorità spaziali e di ambientazione, con un risultato davvero interessante.
Nel complesso ci ha impressionato positivamente il progetto, e siamo felici di aggiungere questa recensione al nostro portale. Ci piace ogni tanto uscire dalle righe per raccontarvi di cosa combinano i nostri ragazzi italiani al di fuori del Post Rock, e gli Oktopus Provance ci dimostrano che la sperimentazione si può mettere dappertutto, e in qualsiasi genere.
The Sound of a Large Crowd è un Album che contiene molto più di 7 canzoni. Questo lavoro racchiude un gioco di suoni, colori e immagini che ne fanno la colonna sonora ideale per un film Post Apocalittico
A Good Man Goes To War, da Torino arrivano fino al nostro Stereo con un album di enorme impatto sonoro.
I ragazzi escono con il loro primo album nella primavera del 2020, nel pieno della prima ondata di pandemia globale, e nella mia mente sono la colonna sonora ideale per questo scenario post apocalittico e surreale in cui ci troviamo a vivere.
Un album che dimostra una maturità sonora impressionante per un primo album. Ambientazioni cinematografiche miste a impressionanti riff monolitici che ci investono e con tutta la loro potenza.
1- Improvising. La Overture di questo album è diretta, senza troppi giri di parole, abbiamo subito un assaggio di quello che il gruppo riesce a sfornare. Suoni di pianoforte e synth si uniscono a percussioni tribali. Il motore si sta scaldando, lo sentiamo. L’ondata sonora è dietro l’angolo. E infatti eccolo, un monolite si erge mastodontico dinnanzi a noi, una chitarra scura e potente che avanza a passi lenti. Basso e Batteria non si risparmiano fin dall’inizio, con un gioco sinergico di ritmiche e sonorità calde, che ci proiettano in un mondo parallelo.
Chiudo gli occhi e mi trovo davanti a un mondo devastato, senza più traccia di vita o di speranza. Un cataclisma forse? Apro la porta e mi avventuro in questo mondo
2- Reflections. I miei passi proseguono incerti, e intanto la mia testa si muove in alto e in basso, tra le macerie di una città che non sembra più esistere. Suoni Synth mi trascinano in questo limbo quasi surreale. Sento qualcosa sotto i miei piedi, guardo in basso, e vedo quel che rimane di una bambola. Chissà a chi apparteneva, chissà se la bambina che la stringeva a sé durante il grande disastro è la fuori da qualche parte. La tengo stretta a me, e una lacrima di incertezza scorre sul mio viso. Alzo lo sguardo ancora una volta, e un raggio di sole fa capolino dietro le macerie del palazzo di fronte. C’è ancora speranza, forse qualcuno è soppravvissuto. Forse un accampamento, da qualche parte. Così il ritmo del brano aumenta, e mi ritrovo a camminare, senza guardare indietro, seguendo quel raggio di sole che mi regala un sogno.
3- All the best memories. È arrivata la notte, e con sè ogni traccia di sicurezza è scomparsa. Davanti a me una vecchia auto, ferma in mezzo alla strada. Apro la portiera e mi nascondo dentro, pronto a trascorrere la notte. Una chitarra sporca piange armonie e traccia dei solchi nell’aria, mentre la batteria lancia una manciata di stelle nell’aria. Il basso vibra costante sotto il nostro suolo, come un eco di qualcosa che si perde nei nostri ricordi. Chiudo gli occhi, ripenso alla mia famiglia, mi chiedo dove siano, e piango come un bambino. Tutti i ricordi affiorano, e gli archi synth mettono a nudo tutta la mia fragilità. Mi lascio andare lentamente, e mi addormento.
4- The bravest moment. Un mattino freddo si presenta davanti a me. Le macerie sono dove le abbiamo lasciate. Ma ora che vedo l’alba, una improvvisa forza mi pervade. Mi sento più forte, più sicuro di me. Apro la portiera, e decido di avventurarmi in questo nuovo mondo. I suoni si susseguono imperativi, sempre più adrenalinici, la batteria incalza, e il rullante intona una marcia di guerra. Vedo morti e dolore intorno a me, ma forse ora ho metabolizzato tutto questo. Guardo avanti, e continuo a camminare, pensando a come sopravvivere a tutto questo. Il basso elettrico mi attira, mi trascina con le sue vibrazioni, e io lo seguo come se fosse un’estensione del mio corpo. Un passo davanti, all’altro, poi inizio a correre, e a correre ancora, senza mai voltarmi, seguendo l’adrenalina che sale. Poi mi fermo, e sento le note di un pianoforte che risuonano nell’aria. Mi volto e ne cerco l’origine.
5- This cold white sky. Lassù, in quel palazzo mezzo distrutto, una ragazza sta suonando note malinconiche. Allora non sono l’unico. Cerco di trovare il coraggio, e supero la soglia di quel palazzo ormai decadente, deciso a raggiungere quel suono. La chitarra di questo intro sembra descrivere la mia ansia, la mia inquietudine. Arrivo davanti alla porta, sento ancora il suono di quel pianoforte che, instancabile e malinconico, risuona intorno a me. La porta è socchiusa, così lentamente entro, cercando di non fare rumore. Mi ritrovo davanti a lei, vedo le braccia e i vestiti logori, l’aria smagrita, gli occhi vitrei, l’ombra di quella che doveva essere una bellissima creatura, ormai senza più vita, mentre suona note dense come la nebbia d’autunno. Decido di mostrarmi a lei, e qualcosa improvvisamente prende vita nei suoi occhi.
6- You have to leave something behind. Dopo un attimo di timore, la povera ragazza decide che si può fidare di me, così in un attimo di disperazione, piangendo silenziosamente, mi abbraccia e ne percepisco tutto il dolore. Ha perso la sua famiglia, durante la notte. Ancora non ricorda come sia possibile, non ha avuto il tempo di realizzare, vedeva solo sangue, sangue ovunque, e sentiva urla, esplosioni, colpi. La ascolto, poi decido di raccontarle la mia storia, fatta anch’essa di dolore e di ricordi. Ora l’andamento del brano cambia decisamente, e i suoni synth si fanno più speranzosi, al tempo stesso quasi solenni.
Alla fine dei nostri dialoghi, cade il silenzio, e un messaggio chiaro si forma nelle nostre menti: “dobbiamo lasciare qualcosa indietro.. per poter andare avanti”
7- Lifeless architecture. E così, ci prepariamo a vivere in questo mondo. Come in tutte le storie, c’è un punto di non ritorno, un momento oltre il quale il protagonista sa benissimo che nulla sarà più come prima. Mi fermo sulla soglia di quella stanza, il mio piede esita, so che facendo un altro passo non potrò più tornare indietro. So che non posso restare in questo posto, devo andare oltre. Chiudo gli occhi, faccio un bel respiro, e proseguo. Le trame di questo ultimo brano si cristallizzano in questo attimo di consapevolezza, costruita su arpeggi di chitarra e percussioni che suonano come se fossero avvolte nel ritmiche di basso. Stringo la mano della ragazza a me, e proseguiamo in questo mondo pieno di pericoli, pronto a combattere, a superare tutto.
Uno spettacolo sonoro e una grande rivelazione sono stati per me questi A Good Man Goes To War. E come tutti i grandi film che si rispettino, ora aspettiamo il prossimo capitolo, il prossimo passo di questa avventura che lascia spazio a molto altro. Come proseguirà l’avventura? I nostri ragazzi torinesi ce lo racconteranno presto.
CORNEA. Semplici e devastanti. Un power trio Postrock che da Padova giunge fino a noi con la potenza di un’intera orchestra.
Cornea è un progetto semplice, senza troppi fronzoli, ma che stupisce per l’incredibile complessità sonora che riesce a creare con pochi strumenti. Un power trio? difficile a credersi dopo aver ascoltato questo piccolo capolavoro, dal titolo Apart.
Non è facile trovare band così mature a livello sonoro, soprattutto in un genere così vasto e libero come quello del Postrock. I Cornea convincono subito per la pasta sonora creata dall’unione equilibrata di Chitarra, Synth, basso e batteria.
1 – Daydreamer – Un inizio a dir poco sognante quello di Apart, che ci delizia con questo brano e ci catapulta subito nello spazio sonoro dei Cornea. La chitarra rieccheggia nell’aria, seguita da suoni synth brillanti e un basso caldo che ci avvolge e ci fa sentire al sicuro. La batteria procede tranquilla, accompagnando l’overture, senza distrarre troppo dai dialoghi armonici. Poi a metà del brano, una chitarra sporca e fa il suo ingresso come un lampo a ciel sereno, lasciandoci apprezzare tutte le vibrazioni calde rese ancora più intense dal gioco di ritmica e armonia.
I Cornea ci ricordano a tratti alcune tra le band più famose del genere, come God is An Astronaut, Mogwai, A perfet Circle, ma si lanciano a volte in sonorità più pesanti e affini a generi come il Doom o lo Stoner Rock e rievocano band come Sleep o Black Sabbath.
2 – Kingdom – Ecco che qui abiamo subito un assaggio di quelle sonorità pesanti e tipiche del Doom appena citate. L’intro del brano non lascia spazio a dubbi con la sua chitarrona spaziale che ci investe con un suono mastodontico e pesante. Subito dopo però abbiamo un cambio di registro e il pezzo prende una piega quasi cyberpunk, con trame sonore futuristiche e adrenaliniche.
Il brano quindi torna a riproporre le sonorità dure e spigolose dell’inizio, alternando un gioco di pulito/distorto e lasciando molto spazio al basso, che rimane molto azzeccato soprattutto nelle parti più pulite.
3 – Will You Heart Grow Fonder? Il brano apre con sonorità piuttosto pulite ma al tempo stesso estremamente scure, lasciandoci pensare a una grotta immersa nella notte, a mostri selvaggi e pesanti che si muovono nell’oscurità e nel mistero. Il brano prende un ritmo quasi ballabile e ci fa muovere la testa avanti e indietro. Il batterista si destreggia alla grande e sa quando iniziare a dare gas, portando il brano ad un livello superiore. a 4:12 riparte il motore alla grande, con una sequenza interessante, portata avanti con un incredibile intreccio di chitarre, basso e percussioni.
Ci sono band che abusano talvolta dei synth credendo di dare così l’impressione di maestosità tipico del genere. Non è questo il caso dei Cornea, che mantengono sempre in primo piano la vera protagonista di ogni canzone, e cioè l’armonia. Sono sinceri, trasparenti, e questo ci piace immensamente.
4 – Saltwater – Dopo averci deliziato con un brano pesante e imponente, i Cornea decidono di regalarci un brano dall’apertura morbida e cristallina, piena di luci e colori soffusi, come Saltwater. Gli arpeggi di chitarra si mischiano con effetti synth e vengono colorati dalle calde note di basso. La batteria mantiene il gioco sostenendo la densità sonora, senza sforzare, senza premere troppo, ma lasciando al brano il tempo di svilupparsi e di penetrare a fondo nell’orecchio dell’ascoltatore. a 3:34 il cambio, ritmi più regolari e ritmati, ci fanno pensare a un cambio d’atmosfera, a un evento in fase di cambiamento. Sul finire del brano ci viene riproposta un’esplosione di colori e suoni, con l’inconfondibile chitarra distorta degli altri brani, che lega insieme i passaggi più importanti di questo percorso.
5 – Sentinels of another Sky – Il brano è iniziato ma ci sembra quasi che l’album non abbia dei momenti definiti. Ci piace ascoltarlo quasi senza guardare il numero della traccia, tanto ci piace il gioco di immagini che si susseguono. Ogni brano però ha il suo carattere, e ce lo dimostrano anche con questo penultimo brano, dal sapore Doom, ma con immancabili tratti sperimentali degni del Postrock che tanto amiamo.
Se vi piacciono i God is An Astronaut sicuramente troverete interessante questo brano, che ripercorre alcune delle loro sonorità, dandoci per qualcosa in più su cui immergere le nostre orecchie.
6 – Diver. I Cornea non potevano scegliere un titolo più azzeccato per descrivere questo momento conclusivo. Siamo in fase di chiusura, e ci immergiamo ancora una volta nei nostri sogni, cullati dagli arpeggi e dalle vibrazioni che riempiono l’etere. La chitarra qui sembra quasi cantare una litania antica, di cui ormai nessuno rimembra più le parole, ma che esprime la sua tristezza e la sua profondità attraverso il suono stesso delle sue corde. E quindi arriviamo al finale, potente, possente come non mai, assalendoci con uno tsunami di colpi e suoni distorti. In mezzo a questo mare sonoro, sentiamo ancora quel canto disperato, laggiù sul fondo dell’oceano.
I Cornea hanno saputo regalarci un momento di assoluto piacere e speriamo di risentirli al più presto in un nuovo album che saremo sicuramente felici di recensire! Chissà quando li potremo vedere live… speriamo presto! Forza ragazzi, andate avanti così!
Rock, Psichedelia e un pizzico di Post-Rock. Questo è Did a Quid. Questo è Joy Dismission.
Un percorso interessante quello dei Did a Quid, band campana che (come si intuisce dal nome dell’album) si pone l’obiettivo di rivisitare brani classici derivanti dal rock anni ’70 in chiave psichedelica (con un occhio di riguardo al postrock).
Un album ampio, che ci propone ben 20 brani per un totale di 1h e 32 minuti di psichedelia rock. Canzoni suonate egregiamente, che dimostrano al 100% la validità di questa band nostrana.
Non c’è che dire, fin dal primo brano la band si rivela interessante, degna di nota, con arrangiamenti curati e un suono originale. La chitarra ci ricorda un pò le sonorità Rock classiche dei primi anni ’70, un pò alla Doors, e la batteria ci conferma lo stile un pò retrò, con un suono panoramico e ritmiche serrate. Il basso si muove languido e sinuoso nelle sue scale e la voce ci accompagna lungo la strada.
La psichedelia c’è, il Rock pure, la voce non è niente male. Lo stile caldo e vintage dei brani ci avvolge e ci fa ripensare a uno dei periodi più belli della storia della musica contemporanea.
Recensire un album di tale vastità è sicuramente un compito arduo, quindi preferiamo dedicare qualche parola in più sugli elementi postrock presenti all’interno del disco.
Alcuni brani presentano scelte stilistiche sperimentali e originali, una fra tutte Heart and Soul, un brano che inizia con il suono di un cuore pulsante, che lentamente lascia spazio a pattern di Drum e suoni elettronici dal tipico sapore psychedelic Rock.
I Brani alternano parti classiche (per struttura e intenzione) a momenti strumentali, in cui la sperimentazione si fa sentire e gioca un ruolo chiave nel significato stesso di questo disco.
Ci piace l’idea del disco, ci piace la sonorità e l’ambiente caldo e ospitale in cui l’ascoltatore si può immergere.
Chiudiamo gli occhi per un momento, e ci immaginiamo un Giradischi, pochi amici intimi, un bicchiere di vino e un cielo stellato.
Nel complesso un lavoro interessante. Forse i Did a Quid hanno preso una direzione, ma a tratti questo percorso è incerto: Band Psichedelica Rock o Progetto innovativo Post Rock? Il confine e labile e noi pensiamo che la band possa maturare molto nei prossimi anni per arrivare a prendere una decisione e una direzione. Potrebbero giocare un ruolo importante nello scenario sperimentale italiano, e speriamo che la loro direzione sia questa.
Una piccola critica sul numero dei brani: 20 tracce sono davvero tante, e questa scelta rischia di far disperdere l’impressione che l’ascoltatore si potrebbe fare del progetto. Come si dice spesso in questi casi… Less is more. Consigliamo ai Did a Quid di concentrarsi più sulla sperimentazione e sull’impronta del progetto che sul numero di brani.
La psichedelia diretta, quasi primordiale dei Frank Never Dies ci catapulta in un universo Cyber Punk, colmo di quell’inquietudine futuristica tipica di un romanzo di Asimov
Waiting for a new day. L’inizio di questo album si preannuncia teatrale. Un suono synth molto anni ’80 ci fa da subito drizzare le orecchie, e ci lasciamo subito catturare. Il primo brano inizia, dopo una breve intro dal carattere solenne arriva il ritmo vero e proprio, cadenzato, suonato con attenzione.
Un ambiente un pò dark, un pò Cyber Punk, con una spruzzata di Horror anni ’80, ed ecco qui i Frank Never Dies.
I tappeti sonori del synth di Simona Ferrucci vengono portati avanti per l’intero brano, senza mollare mai di intensita, e contribuiscono all’impatto sonoro creato dall’intreccio tra Chitarra, Basso e Batteria, che si muovono agilmente tra le pieghe di questo album.
Il brano esplode quindi a 2:40, aprendo in tutta la sua melodiosa maestosità un brano dalle mille sfaccettature. Mirko Giuseppone ci regala un assolo di chitarra si stampo romantico, che ci emoziona e ci prepara al secondo brano.
Ashes. Il ritmo dell’album non perde di intensità con questo secondo brano, che prende la rincorsa e si lancia in un ritmo serrato di batteria, suonato egregiamente da Luca Zannini, che ci fa respirare un’aria un pò GIAA. Ci piace l’idea, ci piace l’intenzione. Andiamo avanti ad ascoltare, socchiudendo gli occhi per vivere un pò di questo mondo sonoro.
Ci sentiamo in un libro di Asimov, ci muoviamo per i sobborghi di una città in rovina, tra androidi e esseri umanoidi.
Il brano si ferma per un attimo di riflessione, note di basso si diffondono tristi e malinconiche nell’aria. Maurizio Troia riesce a trasmetterci sensazioni chiare e intense, che noi respiriamo e facciamo nostre. Il brano riprende l’intensità iniziale, per concludere con una serie di pattern sonori di gusto raffinato e dosati con cura.
No signal. Questo brano ci fa respirare una trama postrock con qualche rimando a quel rock psichedelico Floydiano, fatto di assoli e tappeti synth che abbiamo imparato ad amare moltissimo.
Le percussioni si lanciano in una corsa tribale, la chitarra la segue in modo serrato, senza lasciare respiro.
Poi un attimo di riflessione, le chitarre si abbassano.. il synth rimane presente in sottofondo, come una nebbia densa che tutto permane. Il basso ci accoglie in questo nuovo capitolo con note arpeggiate. Da qui un climax che aumenta fino ad esplodere con un assolo degno di questo brano.
Reborn. Anche in questo brano la psichedelia non manca. E le note di synth cantano accompagnate da atmosfere attentamente studiate per dare a noi ascoltatori sensazioni multiple, contrastanti, che si alternano: malinconia, speranza, inquietudine, amore.
Clubber Lang. I Frank Never Dies dimostrano di avere un suono maturo, studiato e ci regalano un album molto interessante, con un’atmosfera chiara e trasparente che si avverte per tutto il percorso sonoro. Questo brano parla la stessa lingua. Gli effetti Synth si susseguono, mai scontati, e la chitarra riesce a dare sostegno in modo incredibile grazie ad un gioco di arpeggiati ed effetti digitali. Le ritmiche fanno da padrone in questo quinto brano.
The compleat traveller in black.
Immagina un viaggio senza fine, in un mondo futuristico di cui ha perso ogni punto di riferimento. Sai chi sei, ma non sai dove ti trovi, non sai se sei al sicuro oppure se sei in pericolo..
Ecco l’aria che respiriamo in questo penultimo brano. Grazie ai meravigliosi effetti sonori e a momenti di basso e chitarra intensi e chiari, arriviamo alla fine di questo brano con la voglia di risentirlo dal principio.
Meet Again. Forse un messaggio di speranza, l’intenzione di rivederci presto dopo la pandemia che dilaga su questo pianeta, o la promessa di rivedere presto i nostri bravissimi Frank Never Dies tra le recensioni del nostro sito Postrock.it , ed ecco che l’ultimo brano fa capolino su questo stereo. È stato un viaggio piacevole, romantico, e ci dispiace quasi che sia già giunta la fine.
Ascoltiamo questo brano e facciamo tanti complimenti a tutta la band, che entra a far parte sicuramente delle band più promettenti del panorama italiano Post Rock di questo 2020.
Chissà che cosa ci riserveranno i nostri ragazzi per il futuro. Attendiamo con ansia, e speriamo di vederli presto…dal vivo magari!
Claudio Melchior ci lascia così vagare in un pensiero che spesso tentiamo di evitare, a cui spesso cerchiamo di non pensare. Il senso della vita. Non c’è evoluzione, non c’è esplosione semplicemente perché non abbiamo risposta.
Sintetizzatori in forte contrasto con un suono orchestrale di archi, ecco l’inizio di “Schivare la pioggia”. La voce dal timbro cantautorale, effettata da un leggero eco, si introduce già nel primo minuto. Il ritmo dal sound che si mimetizza nell’elettronica incalza sempre di più, a passo con la ritmica vocale. La tendenza pop è molto forte, ma rende l’ascolto più orecchiabile. E’ molto più semplice, così, concentrarsi sul testo.
Rimaniamo con il fiato sospeso in attesa di un ritornello che non arriva, una fuga di parole, una fuga di suono alla ricerca di un’esplosione vera e propria che comunque riusciamo ad ottenere nel finale.
Il fumo sale piano dalle ciminiere, dalle gole nere, dalle tentazioni nere.
Il tutto per non scendere a patti col tempo che ha già deciso di farci del male. Questo dice il testo e ci appare più chiaro il senso del titolo.
Come possiamo schivare la pioggia? La vita è un respiro, un lampione dopo l’altro. La morte muore, rinasce il giorno e così la vita che prosegue.
Non possiamo schivare la pioggia, non possiamo schivare il dolore, non possiamo schivare nulla di quel che ci aspetta, è il semplice cerchio della vita.
Claudio Melchior ci lascia così vagare in un pensiero che spesso tentiamo di evitare, a cui spesso cerchiamo di non pensare. Il senso della vita. Non c’è evoluzione, non c’è esplosione semplicemente perché non abbiamo risposta.
L’album “Eremo” inizia con dei suoni che ci immergono nell’apice del noise, fino all’ingresso della batteria. Un sottofondo di voluto rumore permane per tutto il tempo, corde che stridono, suoni che tremano e noi che tremiamo con loro.
Un ripetitivo sound ansiogeno ci accompagna fino al minuto 2:49 circa, sembra che stia per esplodere qualcosa ed in effetti così è, non musicalmente ma ritmicamente. Entra qui una voce lontana, volutamente d’effetto, calda. Riparte un sound più aggressivo ma ancora ripetitivo, estenuante, ci confonde la mente.
Parte così “Samos”, dopo la baraonda finale del brano precedente: apparentemente più sobrio, introspettivo l’inizio.
Lento, cadenzato, un ritmo quasi visivo. Avanguardistica l’intenzione. La batteria anche qui fa da maestro, da indicatore.
La chitarra la segue fedelmente in uno strumentale che sfocia nello psichedelico a tratti. Una conclusione sospesa che ci lancia nel brano successivo. Ci catapulta come se entrassimo in un varco spazio-temoporale.
E parte così “Passo di Terre Nere”. Un ingresso deciso, ci sentiamo dispersi in un territorio sconosciuto. Come se appunto, entrando in una nuova dimensione, ci ritrovassimo immersi in un mondo pericoloso, o comunque poco famigliare. Ci viene voglia di esplorare, guardarci attorno ma anche correre, fuggire, cercare un luogo sicuro. La calma apparente arriva al minuto 2:13. La chitarra ci annuncia che possiamo respirare un po’. La folle corsa sembra terminata, forse. Introspettivo, espressionista il taglio oscuro che riparte dal minuto 2:45.
Giochi di luci e ombre, forme sfuocate, vacue, contorni sbiaditi di personaggi neri come delle silhouette.
Ci chiediamo dove siamo e dove potremmo finire ancora, in questo viaggio assurdo e ansiogeno. Riparte la corda al minuto 4:20, questo mondo è davvero incomprensibile. Un grido anche questa volta di una voce in lontanaza, un eco si dissolve questa volta nelle nostre orecchie insieme al ritmo incalzante, tutto trema. Un terremoto di suono che rimbomba in una valle isolata.
Aborigeno l’intro di “Hospitales”, percussioni comandano nuovamente il brano, aumentano e rallentano la propria intenzione ritmica, uno squillo ci avvisa che sta arrivando dell’altro. Siamo pronti, all’erta al pericolo di una natura che ci affascina ma ci terrorizza. Guardinghi attendiamo la tigre pronta ad aggredirci ma non arriva. Un arpeggio di chitarra dolce ci tranquillizza per un po’.
Aspetto importante che ci assicura che il duo di Cuneo oltre alla fermezza del suono chiaro, possiede una dolcezza interiore che esprime al momento opportuno.
Una dolcezza che la natura incontaminata ci sa donare, quando vuole. L’esplosione riparte al minuto 3:45 dopo un fischio d’avvertenza.
“Bric Costa Rossa” ci dona la conferma di questo aspetto di una natura selvaggia quanto pacifica. In grado di darci quello di cui abbiamo bisogno, ma quando è lei a deciderlo. Non ci sono pretese.
La collaborazione con Petrolio ha dato vita all’ultimo brano “Cosa da Morte”. Un brano completo che rispecchia il genere, un brano che racchiude il senso di tutti gli altri. Noise, rumori che si trasformano in suoni e viceversa. Batteria che non guarda in faccia nessuno, va dritta come un treno in ogni suo movimento, protagonista indiscussa delle direttive del suono. La chitarra spesso tende allo psichedelico, riff ipnotizzanti, mantra che si ripetono incessanti.
Un album ha bisogno di forza, di grinta, anche di suoni grezzi… ma ha anche bisogno della calma che la Natura, musa ispiratrice del tutto, vuole donare a questo mondo.
I Nitritono riescono benissimo nell’intento, lanciandosi in un sentiero introspettivo ma anche emozionale degno di essere recensito positivamente.
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